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memorie di una generazione

"Oltre alle erbacce, bisognava fare attenzione a bisce e sanguisughe"

Il racconto di Carla, mondina dall'età di 14 anni, che arrivava da Piacenza in treno

"Oltre alle erbacce, bisognava fare attenzione a bisce e sanguisughe"

Per decenni le risaie del Nord Italia sono state il teatro del duro lavoro di migliaia di donne: le mondine. Con il loro lavoro instancabile hanno garantito il raccolto del riso e hanno scritto un’importante pagina che oggi è tradizione. Tra di loro vi è anche Carla, originaria di Piacenza, che con orgoglio racconta la sua storia: dalla stazione di Vercelli ai dormitori delle cascine, fino alle giornate in campagna, al suo matrimonio e al trasferimento nella nostra città. Carla ricorda la sua giovinezza nelle risaie, quando tutto era organizzato e calcolato nei dettagli. Precisamente era il 1958: «Ho iniziato a 14 anni – racconta – da Piacenza venivo a Vercelli in treno. Vicino la Basilica di Sant’Andrea si trovava la Casa della Mondina, un luogo di transito da cui si passava il primo e l’ultimo giorno di lavoro annuale: appena arrivate in città ci davano la colazione tra cui il cacciatorino e un po’ di cioccolata. In seguito arrivavano i titolari delle cascine, con dei cartelli, a prenderci». All’epoca, solo da Piacenza, arrivavano migliaia di mondine (anche da molte altre regioni) e quel viaggio segnava l’inizio di settimane di duro lavoro. «Venendo da fuori, ogni mia giornata, oltre alla paga, valeva un chilo di riso – racconta Carla – A noi veniva fornito vitto e alloggio. Nella mia cascina c’erano il dormitorio per uomini e donne, la cucina e i bagni. Tutto regolamentato: c’era perfino il collocatore che segnava i giorni lavorativi». La routine iniziava prestissimo. «Ci alzavamo alle 5 e alle 5.30 eravamo già nei campi – spiega Carla – Ma prima facevamo una colazione veloce con pane raffermo nel latte». Poi via, tutti in risaia a mondare: «Bisognava riconoscere le erbacce e strapparle una a una. Serviva anche prestare attenzione alla luce per vederne il colore diverso e distinguerlo. Non era poi raro trovare bisce e sanguisughe. Ogni squadra era formata da 10 -12 mondine e nella mia cascina in tutto eravamo circa 800. Ognuna aveva la sua area e si veniva supervisionati da un capo che controllava che non si saltasse nessuna zona». L’orario, ricorda Carla, per le mondine era scandito dalla sirena della Chatillon che loro sentivano in lontananza. In tante cantavano per far passare il tempo. Poi, verso le 9, una piccolissima pausa: «Arrivava una persona a darci il pane e l’acqua». A pranzo una scodella di riso, la sera la pasta e la domenica la pasta con lo spezzatino: «Io stavo molto bene in cascina» ribadisce Carla. Col passare degli anni, l’avvento dei diserbanti e delle macchine tolse manodopera e segnò la fine dell’epoca delle mondine. «Però per me – conclude Carla – è stata una vita. Mi sono sposata e ho comunque continuato a lavorare». Il suo racconto ricorda che dietro ogni chicco di riso raccolto c’era fatica e coraggio. Le mondine, negli anni addietro, sono sempre state simbolo di forza e protagoniste di un’importante pagina della tradizione italiana: nel 1906, dopo lotte sociali, le predecessori di Carla ottennero la contrattualizzazione delle 8 ore lavorative giornaliere. La loro determinazione permise di ottenere conquiste fondamentali: il progresso sociale nasce anche dal sacrificio di chi, con le mani nella terra, ha saputo cambiare la storia.

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