Seminario arcivescovile
di Robertino Giardina
12 Marzo 2023 14:00
Il 25 febbraio nel Seminario di Vercelli si è svolto il secondo appuntamento del ciclo di incontri, organizzato dal Meic di Vercelli, dal titolo “Per una Teologia della pace”.
Hanno relazionato: Mons. Giovanni Ricchiuti, Presidente di Pax Christi e Vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle fonti, il Prof. Luigi D’Andrea, presidente Meic nazionale e docente di Diritto Costituzionale all’Università degli studi di Messina, Iolanda Poma,del Disum dell’Università del Piemonte Orientale e direttore C.I.I.S., Gabriella Silvestrini del Disum dell’Università del Piemonte Orientale e docente di Storia del pensiero politico. Ha moderato l’incontro Suor Alfonsina Zanatta, suora della Trasfigurazione e responsabile della Pastorale Universitaria. Era presente Mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea e Padre conciliare. Padre Marco Arnolfo ha aperto i lavori ringraziando i presenti ed i relatori intervenuti con un saluto: “Benvenuti a tutti voi che siete qui presenti; saluto Mons. Ricchiuti con il quale ho condiviso anche un bel cammino nella Commissione nazionale della pastorale sociale del lavoro e dello studio del creato “Giustizia e pace”. Un anno fa, quando si organizzava questo incontro, non pensavamo che la guerra sarebbe rimasta ancora così attiva, così violenta e pericolosa: l'escalation si sta manifestando ogni giorno, quindi è ora di riflettere. Anzi, avremmo dovuto partire in tempo di pace, proprio per educare alla pace e per educarci ad una convivenza che metta in rilievo i valori che ci uniscono e che condividiamo, i valori più profondi e spirituali che possano unirci in modo sereno, pur nelle nostre diversità e sullo stesso cammino sinodale a cui siamo invitati. Quindi ben venga questa riflessione, perché la pace, quella che vogliamo augurare, non è la pace di chi ha vinto, ma è quella della serenità raggiunta da entrambe le parti, dovuta ad un traguardo raggiunto insieme; noi dobbiamo augurarci questo cammino, questo traguardo, cercando insieme e con tutte le forze, questa pace tra di noi”.
Tommaso Di Lauro ha voluto, come di consueto, iniziare nel ricordo del fondatore del Meic: “Il nostro ciclo di conferenze è dedicato a don Cesare Massa che ringraziamo per la grande eredità spirituale che ci ha lasciato. Ricordiamo anche Charles de Foucauld profeta di fratellanza universale, Papa Giovanni XXIII, Mons. Tonino Bello, presidente di Pax Christi, e don Lorenzo Milani ‘profeta disobbediente’ che sposò la causa dei poveri: anche lui una pietra scartata proprio da quella chiesa che poi gli rese omaggio il 20 giugno 2017 quando Papa Francesco andò a visitare la sua tomba. Scartato perché, in obbedienza al Vangelo, seppe diffondere la sua missione rivolta al mondo della scuola e ai giovani”. Don Milani seppe comunicare al mondo che era venuto il momento di fare delle scelte: “Perché crediamo che la pace si possa costruire anche partendo dal banchi di scuola e dai giovani, vogliamo credere invece alla non-violenza come una forza capace di condurre una fraternità durevole”. Di Lauro ha concluso in continuità con il pensiero di don Milani: “Il futuro della pace dipende da ciascuno di noi; dobbiamo però fare il primo passo, dobbiamo riprendere in mano quell'aratro che scava incessantemente nelle profondità delle esperienze umane per seminare una pace duratura. Noi crediamo che il futuro della pace dipenda anche dallo stato di salute dell'istruzione dei nostri figli, dal modo in cui sarà loro insegnata la storia, da come saranno loro insegnate la teologia e la religione, il perdono e la riconciliazione”.
Nelle parole di Suor Alfonzina Zanatta alcune riflessioni che hanno avviato i relatori nella loro esposizione:
“Quando mi è stato chiesto di condurre questo convegno la mia riserva maggiore è stata il timore di farmi risucchiare da una certa retorica della pace. Pace: parole, parole, parole e poi? Lo scoraggiamento sempre più profondo di fronte alla sterilità di queste parole, di fronte ai conflitti che, piuttosto chediminuire, sembrano aumentare. Ma anche questa è una tentazione, quella di arrestarsi, temendo di arricchire la retorica della pace, perché non possiamo e non dobbiamo rinunciare a sperare e a costruire pazientemente e con prontezza giorni e spazi di riconciliazione, a rendere credibile e bello il senso della vita insieme e a collaborare con Colui che solo dona la pace, ad accogliere l’ideale della pace che Dio ci dona e che ci chiede di donare a nostra volta, inteso che dobbiamo tornare a questa radice del nostro essere vivi e del nostro essere su questa terra oggi, attraversando questo tempo. Questa mattina staremo su orizzonti soprattutto educativi ed evangelici, sociali, comunitari, ma anche politici e geopolitici e voglio aggiungere un pensiero, un richiamo che mi sembra importante a livello teologico e spirituale, e cioè che la pace deve partire da noi stessi, dalla nostra interiorità. Etty Hillesum ci diceva che: Occorre combattere ogni angolo di odio dentro di noi, ma dobbiamo prima di tutto riconoscerlo. Nelle sue pagine del Diario, uno dei testi più luminosi del ‘900 ha lasciato scritto: in fondo il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggiore tranquillità, fin quando si sia in grado di irraggiarla anche sugli altri. E più c’è pace nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo”.
Con un video messaggio è intervenuto il Prof. Sergio Tanzarella, ordinario di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli, dove dirige l’Istituto di Storia del cristianesimo. Il Prof. Tanzarella si era già espresso sul tema: “Occorre non solo includere il tema della pace nella teologia, ma rinnovare la teologia per una fondazione della pace. Siamo chiamati dalle domande della storia ad una conversione della teologia. Chiamati a far confluire i nostri campi di ricerca, spesso molto specialistici, in una elaborazione collettiva e coraggiosa di una Teologia per la Pace fondata sul senso profondo della nonviolenza ispirata al Vangelo”. Dinnanzi a questa catastrofe di umanità che sono state e sono le guerre moderne il magistero pontificio ha sempre più affinato una posizione chiara che da Benedetto XV in poi ha espresso una totale condanna e il rifiuto ad offrire alla guerra giustificazioni morali e divine”.
La prima relazione affidata al Prof. Luigi D’Andrea, ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Messina e presidente del Meic nazionale, ha preso il via con una frase emblematica: “E’ giunto il tempo di cominciare a costruire una strada di sviluppo umano; come credenti, dobbiamo essere animati da un ottimismo antropologico, l'umanità deve progressivamente dotarsi di strumenti etici, giuridici, sociali e culturali per un abbandono definitivo della forza armata come risoluzione nelle controversie”. In apertura, ha ringraziato tutti i presenti e ha voluto manifestare il piacere e l’onore di trovarsi davanti a Mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea e ultimo Padre conciliare vivente: “un pezzo di storia della Chiesa e non solo della Chiesa italiana. E’ un’emozione poter ragionare di pace, prendendo spunto dalla guerra in Ucraina, in presenza di Mons. Bettazzi”.
Nelle sue parole: “La questione della guerra pone il cristiano in una posizione complicata, sempre lacerata e come credente oscilla tra due poli: quello profetico e quello realistico. Il primo induce a pensare al tempo di pace, quindi alla promessa del Signore: un giorno ci sarà la pace e noi dobbiamo camminare in quella direzione. Ed ancora alla profezia di Isaia: Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra”. Un’altra visione profetica è afferente alla “Gerusalemme celeste che scende dall'alto e la terra sarà un luogo in cui la pace non è solo l'assenza di conflitti, ma è un concetto che richiama la giustizia e la misericordia”. Ha citato Papa Francesco, il profeta più importante del nostro tempo, che nell’Enciclica “Fratelli tutti”, scrive un pensiero molto importante: ”la pace va declinata insieme, in sinergia con la verità e con la memoria, con la giustizia, col perdono. La riconciliazione non è dunque solo assenza di guerra, ma è qualcosa che si raggiunge con la giustizia e la misericordia, con la verità e la memoria”.
Sui temi della storia e della memoria la posizione è in linea con il Magistero della Chiesa: “Il ruolo della storia della memoria è fondamentale, perché senza memoria di una storia e senza dialogo tra le memorie non si può costruire la pace. Perché le memorie sono tante, a volte diverse e senza dialogo. E qui entra in gioco l'esigenza di rapportarsi con la dura realtà, con le dure repliche della storia: iI profeta non può ignorare la realtà e quindi bisogna leggere i segni della presenza di Dio nell’oggi, per andare verso un domani a partire dall’esperienza di ieri. L’istituto della ‘legittima difesa’ è sottoposto a rigorose condizioni ed è presente nell’insegnamento della Chiesa Cattolica. Contiene molte cautele, molte osservazioni e con la sua caratteristica essenziale che è data dalla proporzionalità, è lì a ricordarci quanto sia importante rapportarsi con la realtà”.
A legittimare queste tesi il Prof. D’Andrea richiama il passaggio n. 227 dell’enciclica Fratelli tutti: «la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate”. Ha richiamato anche il capoverso n. 241: “Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere.”
Per D’Andrea sono “parole impegnative, che ci richiamano alla complessità della politica e dell'opera alla quale sono chiamati gli operatori di pace e che ci apre al realismo, inducendoci a considerare come la politica, ma anche la società civile è chiamata a leggere la realtà, a capire quali strategie conviene adottare in vista del conseguimento dell'obiettivo, valutandone i costi e i benefici, nonché le alternative percorribili. Tra profezia e realtà è stato evocato un noto passaggio evangelico: “Se il profeta ha la semplicità della colomba, il realista deve avere la prudenza del serpente. Entrambi sono paradigmi per i credenti, paradigmi congiunti perché il vero profeta deve aprirsi alla provocazione del realista che appunto suggerisce di fare attenzione a non cadere nella logica dell'avversario, alla logica della guerra”.
Sulle proposte future, sulle politiche diplomatiche: “E' necessario capire qual è la strategia dei soggetti in conflitto, dove vogliono arrivare, quali soluzioni possiamo offrire per non premiare l'aggressore rispetto all'aggredito. Se vogliamo veramente fare una politica di pace e non semplicemente una resa davanti all'aggressore, che è soltanto generatore non solo di nuove ingiustizie, ma come ci ricorda il Papa, di non verità e di guerre, dobbiamo ragionare su cosa proporre per evitare che altre guerre si possano generare, quali condizioni ci possono essere per determinare la giustizia” . Osservando la realtà da un punto di vista del ‘costituzionalista’ ha citato l’art. 11 con il principio “del ripudio della guerra quale strumento di aggressione ed offesa in una prospettiva che coniuga pace e giustizia. Lo stesso articolo mette a carico dello Stato quelle limitazioni della sovranità necessarie per supportare un ordinamento che può assicurare la pace e la giustizia delle Nazioni. I nostri Padri costituenti guardavano già ad un cammino europeista, però con uno sguardo all’Onu che prevedeva interventi militari. La parola guerra quindi entra nelle possibilità previste, ma sempre in una prospettiva di pace e giustizia tra i popoli.”
La necessità di dialogare e di trarre il meglio dalla cultura di ogni popolo viene affermata nettamente: “Bisogna elaborare una strategia basata su una cultura che esce dalla quella con l'elmetto a favore di quella che sa riconoscere sempre e comunque il fratello. Lasciatemelo dire: una delle cose più insopportabili che ho visto in questo anno è stata quella delle risposte culturali che abbiamo dato ai russi. Non mi riferisco al fatto bellico ed alle conseguenti sanzioni, che si possono anche capire, ma alla scelta della chiusura culturale nei confronti della Russia. La nostra risposta deve essere invece quella di mantenere sempre il dialogo con le persone, cioè sentire che bisognava rinunciare a leggere Dostoevskij perché c'è la guerra è stata una cosa demenziale; rinunciare ad uno spettacolo teatrale a causa del conflitto è sbagliato. Mi confronto col meglio della cultura russa proprio per dire ad essi che nella loro cultura c'è tutto quello che serve per andare verso un orizzonte diverso. E’ necessario creare la possibilità di parlare alle persone che vivono dentro sistemi chiusi. La possibilità dell'incontro umano anche col paese più feroce e dittatoriale è fondamentale perché si inneschi un germe di riscatto e di umanità che può fecondare, perchè la pace non è vittoria dell'uno sull'altro ma può essere solo per tutti. Noi possiamo convergere su un’idea di pace solo se ci facciamo carico delle ragioni dell'altro, se la nostra vittoria non sarà una nostra vittoria ‘contro’, ma sarà una vittoria per tutti”. A tal proposito ha raccontato un aneddoto conclusivo dell’intervento: “Un ex repubblichino ed un ex partigiano cominciarono a dialogare sulla seconda guerra mondiale e sul fascismo. Il repubblichino nel ripercorrere le fasi di questo periodo disse al partigiano: ‘tu potevi essere sconfitto’. Quest’ultimo rispose che “se avessi vinto tu sarei morto, ma ora che ho vinto io, tu puoi parlare e vivere liberamente”. In questi aneddoti la prospettiva di un seme di speranza e pace per tutti che può sorgere anche da questo conflitto.
A seguire il Vescovo Mons. Giovanni Ricchiutiha ringraziato e salutato tutti i presenti e con particolare affetto Mons. Luigi Bettazzi. La sua relazione è stata centrata sulla teologia e sulla pace: ”Oggi parlare di teologia significa specificare che è ‘per la pace’ e ‘non della pace’, cambia moltissimo perché indichiamo un cammino che tutti dobbiamo intraprendere. La teologia per la pace è qualcosa che oggi viene insegnata anche nelle università cattoliche, ma solo da poco tempo. Il termine pace deriva da shalom che non significa assenza della guerra, ma un insieme, una totalità di visione teologica, antropologica e testimoniale della vita esistenziale. Noi, attraverso la catechesi, la liturgia, la nostra vita dobbiamo testimoniare la pace. Alcuni fratelli accostano questa parola alla politica sostenendo che noi cristiani non dobbiamo fare politica. Ecco, parlare di pace non significa fare politica, ma profezia. Il movimento Pax Christi nasce da un grande sogno, dopo la seconda guerra mondiale, che è quello della ricostruzione anche sulle radici cristiane dell’Europa. Ma questa idealità, se pensiamo alla prima e alla seconda guerra mondiale e se pensiamo al conflitto ucraino, si infrange sul fatto che le guerre sono state combattute da cristiani. L’interrogativo è sempre lo stesso: quali radici cristiane quindi? La mia convinzione è che per elaborare una teoria della pace ci vuole formazione ed un’educazione delle nuove generazioni perché è un cammino difficilissimo e il popolo di Dio deve far sentire forte la sua voce in un’unità d’intenti”. Esistono tanti esempi dati dagli uomini e dalle loro opere; ha citato “Don Giovanni Minzoni, prete ucciso dai fascisti, don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani e don Tonino Bello: 4 giganti, che molto hanno da insegnare oggi alla Chiesa e non solo ad essa. Papa Giovanni XXIII con la sua enciclica ‘Pacem in terris’ ha lasciato un cantiere ancora aperto per la teologia della pace; la sua struttura è basata suii diritti dei popoli, sulle attività dell’umanità, sul progresso al servizio dell’uomo, sulla pace fra tutte le genti nella verità, nella giustizia, nell’amore. Leggendo questa enciclica viene da pensare che se qualcuno dovesse pensare di risolvere le questioni internazionali con la guerra, alienum est a ratione. La guerra è una pazzia e ad essa contrapponiamo la ‘dissolvenza dei volti’: una definizione data da Don Tonino Bello che evidenzia il nichilismo che caratterizza ogni conflitto, laddove assumiamo che il nostro volto è a immagine e somiglianza di Dio. E’ bene che nelle università, nelle facoltà teologiche si parli delle pace; è urgente perché il punto di partenza è il Vangelo di Gesù Cristo; in lui troviamo la pace , il nostro Shalom, La totalità della visione bella del presente e del futuro, lo stare insieme da fragili peccatori, cioè in tensione, ma in comunione con Egli e tra di noi. Dobbiamo lavorare per la pace perché avremo ‘un cielo nuovo e una terra nuova’, che già da questa esistenza terrena dobbiamo anticipare con le nostre opere. I ragionamenti pessimisti, di rassegnazione che pensano che la storia si ripeta e non cambi mai nulla, non possono essere accettati. Non dobbiamo essere ‘pacefondai’, come qualcuno ci definisce, ma artigiani della pace”.
A questo punto Padre Ricchiuti cita “il profeta Geremia, che quando suggerì al suo re di non andare incontro al suo nemico che aveva una forza dieci volte superiore, non fu ascoltato, ma gettato nella fossa. Fu liberato soltanto quando si resero conto che aveva ragione. Nel Vangelo abbiamo l’esempio di Gesù che dice a Pietro di rimettere la spada nel fodero: ‘chi di spada ferisce, di spada perisce’. Così dimostra di essere un non violento che porta un pensiero nuovo, controcorrente e che divide dal pensiero del tempo. In questa parabola dimostra che la violenza prima o poi genera altra violenza e che quindi non è una strada percorribile Dobbiamo maturare le dinamiche che provengono dal Vangelo, perché rischiamo di conformarci a mentalità che nulla hanno a che fare con la pace di Gesù. C’è una teologia per la pace? Bene questa deve trovare fondamento nell’antropologia per la pace senza mai dimenticare che l’essere fratelli e sorelle discende dalla visione antropologica di un noi, di un io che è generato a immagine e somiglianza di Dio”.
La Prof.ssa Silvana Poma è intervenuta ricordando la figura di Simone Weil con alcune citazioni: “Simone entra in fabbrica e dall'esperienza devastante di questo lavoro alienante, in un luogo non di pace ma di oppressione,matura il pensiero di un valore autentico, addirittura sacro del lavoro che secondo lei dovrebbe stare al centro di una società ben ordinata e sensibile agli avvenimenti storici del suo tempo”.
Sono stati riportati alcuni passi del libro“L'iliade o il poema della forza”. Un piccolo ma denso testo nel quale “Emerge la convinzione che vi siano state delle circostanze per cui la forza si è resa necessaria per evitare mali peggiori. Ma questa forza va esercitata solo a scopo difensivo, con il dolore di doverla utilizzare e la volontà di uscirne il prima possibile. Successivamente, fin dai suoi primi iscritti la forza è individuata come la causa di dominio di un soggetto che si fonda, si costituisce sul potere secondo un lessico della violenza. Nell' ‘Iliade poema della forza’ emerge che l'effetto più potente della forza è quello disumanizzante e di ridurre un essere umano a cosa inerte, in balia di un altro uomo. Ma l'esercizio della forza anche da parte di chi domina non è che illusione, perché la forza non si domina, non è una proprietà, è un meccanismo ed in quanto tale incontrollabile e vincola, si impone sia su chi domina e sia su chi subisce. Ed ancora, in conclusione: “ Quello della corsa al potere è un processo che si autoalimenta diventando da semplice strumento di una collettività che finisce per gettare su ciò che è relativo il colore dell'assoluto, cioè finisce per assolutizzare una grandezza solo umana. Questo è la radice dell'atteggiamento idolatrico di cui è espressione enfatica la guerra. Quindi occorre distruggere la falsa pienezza che è in noi, perché solo allora potrà crearsi quello spazio in cui poter ricevere il dono di un bene superiore, di una grazia la cui azione è analoga allo sviluppo naturale di un seme:negare l'assenso a tutto ciò che non è bene consiste da parte nostra nello staccarci dal regno della forza semplicemente non adorandolo”.
Mons. Bettazzi nel salutare il pubblico ha esordito con una battuta autoironica sui membri del Concilio Vaticano II ancora in vita che dovrebbero esser cinque, ma non essendone sicuro “posso dire di essere l’unico europeo ed italiano ancora rimasto in vita”. Ha ripercorso le tappe del Concilio ricordando “di essere stato nominato vescovo nel ’63 e quindi ho potuto partecipare solo alla seconda sessione dei lavori. In quel periodo era già uscita la ‘Pacem in terris’ che invitava non solo i cristiani ma ‘gli uomini di buona volontà’ ad adoperarsi per la pace. E’ da lì che il Concilio da dogmatico si è trasformato in Concilio pastorale”. Evidenzia una parte dell’enciclica, quella che condanna le guerre totali e le guerre ABC: atomiche, batteriologiche, chimiche. Si dice “contro le guerre totali che coinvolgono le popolazioni civili, le persone inermi, costretti a subire o a lasciare i propri luoghi d’appartenenza. Oggi tutte le guerre sono così e i soldati dovrebbero fare obiezione di coscienza contro le guerre totali”. Propone “la via della non violenza; bisogna attivarsi per un’educazione alla formazione di una mentalità della pace”.
La Prof.ssa Silvestrini ha partecipato al pubblico l’esistenza di una rete universitaria formata da settanta Università: “Il Centro Interateneo di Studi per la Pace (CISP) è stato fondato nel 2001 dall'Università di Torino, dall'Università del Piemonte Orientale e dal Politecnico di Torino, con la finalità di promuovere, coordinare e svolgere studi e ricerche sui temi della pace e della guerra, in una prospettiva aperta alle diverse sensibilità politiche, religiose e culturali. Esso inoltre promuove, coordina e svolge studi e ricerche sui processi di controllo e riduzione degli armamenti e sulle relative tecnologie”. Ma l'esperienza più consistente in Italia di questo tipo di studi “viene dall'università di Pisa che dal 2001 ha un corso di studio triennale ‘Scienze per la pace e cooperazione internazionale’ incentrato proprio sulle scienze per la pace.”
Nelle sue parole è auspicabile che “ci sia interdisciplinarietà delle scienze per la pace, perché il problema è di individuare quali siano gli obiettivi che si vogliono conseguire con gli studenti. La finalità più ampia che potremmo indicare è quella della educazione alla pace, l’educazione civica, l’educazione alla cittadinanza che dovrebbero far parte di tutti gli insegnamenti universitari. Dall’altro lato andrebbero individuati quei percorsi professionali per formare una classe politica capace di gestire i conflitti non a livello individuale ma a livello nazionale e internazionale”. Sono stati toccati quindi le questioni legate ai totalitarismi, agli stati democratici e al cosmopolitismo che avrebbe dovuto superare l’idea di sovranità nazionale per favorire quelle organizzazioni internazionali che avrebbero dovuto garantire la pace, cominciando dall’ONU. In conclusione si è rivolta a Mons. Bettazzi e allo scambio di corrispondenza avuta nel 76-77 con Berlinguer, portando alla luce una questione ancora attuale:”Quale ruolo vuole avere la Chiesa all'interno di uno stato che al tempo stesso laico, ma che condivide con la Chiesa questi obiettivi di giustizia sociale?.” Una domanda proiettata verso nuovi orizzonti che nel prossimo futuro saranno certamente oggetto di discussione.
Ha concluso i lavori Don Maurizio Galazzo ringraziando tutti i presenti tra cui i gruppi provinciali del Meic Piemonte presenti: “le ultime domande poste dai relatori e le riflessioni emerse da questo convegno saranno i punti di partenza per i prossimi appuntamenti che si terranno a breve”.
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