La storia della Pro Vercelli
di Alex Tacchini
9 Febbraio 2023 15:00
I fasti calcistici, i sogni, le soddisfazioni ad occhi aperti, il centromediano vercellese classe 1906 Luigi Pensotti, per tutti “il Gino”, li ottenne con la maglia candida della sua città, dove era nato il 23 aprile.
Il che non è da tutti, ma se nascevi nella città del riso nei primi 30-40 anni del secolo scorso, beh, qualche chance in più degli altri ragazzini italiani di fare carriera nel tirare calci ad un pallone di cuoio scuro, pesante e cucito a vista, ce l’avevi di sicuro. Grande amico (e perfettamente complementare a livello tattico) del futuro nazionale cursore mancino Angelo Piccaluga, Pensotti era uno forte, concreto, essenziale nella sua eleganza ed umiltà, fuori e dentro al campo. Con quel suo ciuffo di capelli ramati, pettinato all’insù (che ora appare a dir poco ridicolo), ma che nella metà degli Anni ’20 andava di gran moda. Fermava in maniera pulita le azioni altrui e ne impostava di nuove, testa alta, mai senza una sovrapposizione di gerarchie o di ruoli. Di posizione o di galloni nello spogliatoio. Anzi. Se c’era da fare un passo indietro per il bene di un compagno di squadra, tutti si giravano e - dopo un rapido giro di sguardi silenziosi - era il Gino a farlo. Con un sorriso. Lui, che non era un fuoriclasse, ma uomo di sostanza, quello sì. Di quelli indispensabili nelle cosiddette “amalgame” per rendere compatta e vincente una squadra. I primi calci, li tirò all’oratorio del Belvedere, “con vista” sugli Erranti e le giovanili della Pro Vercelli, quindi la chiamata in prima squadra da quel trio da leggenda in persona composto da Bertinetti, Leone e Milano I, che smessi i panni di calciatori (ma non di schermitori), ora dirigevano il traffico nelle vesti da tecnico per l’amata creatura pedatoria fondata proprio da Marcello tra il 1902 e il 1903. Il fatidico debutto di Pensotti nel massimo campionato di calcio (Prima Divisione 1924-25, Torneo Eliminatorio/Lega Nord: Girone B) , fu “…di quelli col cuore in gola”, come raccontò al nipote Roberto Pensotti, tifosissimo dei Leoni da sempre e testimone nella nostra intervista, che col nonno andava a vedere la Pro quando in tribuna c’erano ancora le panchine di legno grigie e che quando si perdeva si lasciava andare a dire che “noi, ai nostri tempi, piuttosto che fare quelle figure lì, mangiavamo l’erba”. Anche perché si doveva giocare in trasferta e non in una gara qualsiasi, ma nel già attesissimo derby col Novara.
Già. Perché anche se per ancora pochi mesi, Vercelli si trovava ancora nella Provincia Gaudenziana dal 1859. Anzi, a ben guardare, tutti gli scudetti furono vinti sotto la Provincia che corre tra Ticino, Agogna e Sesia. Sarà solo dal 22 dicembre 1926 (e con Regio decreto n.1 del 2 gennaio 1927) che Vercelli si affrancherà dalla Cupola di San Gaudenzio, per tornare a gestire il proprio territorio, esattamente come Napoleone in persona le aveva assegnato a cavallo tra il 1799 e il 1802, data di nascita del Départment du Sesia (letto ovviamente “Sesià”), che ebbe proprio Vercelli come capoluogo. L'11 settembre 1802 Bonaparte aveva posto fine al Piemonte, annettendolo alla Repubblica Francese: il Départment Vercellese (contraddistinto dal numero 107, come si usa tuttora in Francia) era diviso nei 3 Arrondissement di Vercelli, Biella e Santhià e 23 cantoni, con una popolazione di quasi 203.000 abitanti, che risiedevano nel perimetro che ad Ovest lambisce la Dora (Ivrée), a Sud Marengo (Alexandrie), a Est l'Agogna col Département du Novara e a Nord col Dipartimento del Sempione-Simplon, a quei tempi capitanato dall’helvetica Sion, ponendo Vercelli dunque tra le più antiche province italiane, le cui radici sorgevano sin dal glorioso Municipium Vercellae dell’Impero Romano.
Correva una domenica, quel 29 marzo 1925 e la Pro Vercelli andava a sfidare il Novara quando si giocava ancora sul Campo di via Lombroso, tra le attuali via Costantino Porta e via Gnifetti. In quel gioiello di viale Alcarotti (dal 5 giugno 2004 stadio “Enrico Patti”), quello con la cupola del San Gaudenzio che si staglia sullo sfondo inimitabile (architettonicamente stretto parente del “Robbiano” e del “Moccagatta”, su terreno donato dall'allora presidente del Novara ingegner Guido Beldì e inaugurato il 3 novembre 1912), si sarebbe infatti giocato solo dal 20 settembre 1931 in poi (e sino al gennaio 1976), con il nome di “Stadio del Littorio”. Il Novara dell’eclettico presidente, nonché futuro podestà Luigi Tornielli di Borgolavezzaro (di lì a qualche mese avrebbe partecipato ai primi Giochi olimpici invernali, quelli di Chamonix-Mont-Blanc 1924, nel bob a quattro) era una buona squadra e scese in campo con: il portiere della nazionale magiara Ferenc Feher, il difensore Enrico Patti (proprio lui, quello dello stadio), Clerici, Ragaglia, Adamo Roggia, detto II, il milanese Bruno Varalli, Visca, l’attaccante Serafino Carrera da Robbio Lomellina (futuro campione d’Italia col Torino 1927-28, l’anno prima in campo nel discusso match del 5 giugno 1927 vinto contro la Juventus, dal quale scaturì il celebre "caso Allemandi" che portò alla revoca dello scudetto al Toro), Mario Meneghetti (tra i più grandi giocatori novaresi di tutti i tempi), il futuro laziale Pierino Cappa e Alfredo Milano. La Pro Vercelli rispose con Cavanna tra i pali; Perino e Borello in difesa; Ceria, Milano IV, Pensotti, in mediana e Zanello, Ardissone, Matuteja, Rosso, Piccaluga i cinque d’attacco. A sbloccare l’empasse ci pensò al 4' della ripresa l’azzurro Patti, a cui ripose poco dopo (54') Piccaluga su calcio di rigore. L’1-1 sarà anche lo score finale, in quello che passerà alla storia come il derby dei 4 cartellini rossi: due comminati dal signor Melandri di Genova a Carrera e Meneghetti del Novara, due a Rosso e… Pensotti della Pro Vercelli. Proprio lui, il Gino. Che in carriera avrebbero chiamato poi tutti “Il gentiluomo”, ma che le ossa se le doveva evidentemente ancora fare.
Per Pensotti, in quel campionato, sarebbe stata l’unica presenza, così come nella stagione successiva (1925-26). Le redini del centrocampo le avrebbe assunte solo dal 1926-27 con 15 presenze, culminate poi con le 29 nell’anno della prima Serie A (1929-30). A quel punto, per Gino Pensotti, stavano per suonare le sirene. Non quelle di Ulisse, ma dagli irti comignoli della Pettinatura Lane, il Fabbricone di via Francesco Donato, a due passi dal Quajot (nome che derivava dalla famiglia di benefattori vercellesi Quagliotti) dove avrebbe lavorato per 40 anni, sino ad essere riconosciuto come “Maestro del lavoro” nel 1971. C’era però ancora da giocare la gara d’addio a quella sua maglia bianca che spesso diventava sporca di erba, sudore e di fango: il commiato dalla Pro avvenne al Campo Villa Chayes di Livorno, quando i labronici del magiaro Joszef Rady infilarono per tre volte la porta difesa da Scansetti e con il gol della bandiera vercellese firmato da un certo Pietro Ferraris, “detto II”. Al fischio finale, i compagni e mister Nagy corsero tutti ad abbracciare quell’amico che aveva giocato insieme a Piola ed avuto avversari - tra gli altri - leggende del calibro di De Prà, Banchero I, Levratto, Allemandi, Meazza, Combi, Caligaris, Varglien I, Munerati e Orsi e che ora stava dicendo addio per dedicarsi ad un’azienda che trasformava la lana in preziosi filati. Per lui, che di stoffa, in carriera, ne aveva avuta da vendere, sarebbe stato un gioco da ragazzi.
La prossima puntata sul numero de La Sesia in edicola venerdì 10 febbraio
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