Chiacchiere di moda
di Silvia Barbieri
5 Maggio 2021 09:53
Niente di così semplice, eppure così difficile da innestare in una società auto-divorata dal consumismo implosivo: il riutilizzo. Esatto, sembra banale e scontato, ma la migliore scelta etica e sostenibile in termini di acquisto del proprio guardaroba, sarebbe – oltre che alla rinuncia di un capo nuovo ad ogni battito di ciglia – l’optare per comprare vestiti, scarpe e gioielli da rivenditori dell’usato.
Stiamo assistendo al fiorire di una moltitudine di app che sfruttano il cambio di direzione dettato dalle conseguenze pandemiche per offrire quelle che a me piace chiamare “piattaforme di condivisione”. Citiamone due fra tutte: Vinted – per una scelta più a portata di portafoglio per tutti – e Vestiaire Collective – per un mercato un po’ meno votato all’accessibile, ma decisamente più selettivo all’ingresso. Il dare nuova vita ad un accessorio riposto nel dimenticatoio di un armadio ha di per sé un fascino intrinseco e un significato filosofico vintage. Se ci si ferma a riflettere è una continua forma di serendipità. Quando si lascia andare un oggetto, in qualche modo quel qualcosa è intriso di ricordi, belli o brutti, ma pur sempre parte della vita di qualcuno: una borsa indossata in un’occasione immortalata da una fotografia riposta nel cassetto del proprietario originale, un trait d’union tra due persone, che possono non avere nulla in comune, se non un account sulla stessa app.
Al di là del flusso di pensieri sopra espresso però, vi è una realtà concreta. L’economia circolare generata dall’acquisto di seconda mano, fa l’occhiolino a un tema che ormai sta col fiato sul collo delle più grandi aziende di produzione del mondo della moda: la sostenibilità. La sorte che spetta all’overstock di quasi tutte le case del fashion – e soprattutto del lusso - è quello, o per lo meno è stato fino a poco tempo fa, della distruzione della produzione invenduta al fine di produrre altra merce, che subirà lo stesso destino alla fine del suo ciclo di vita. Insomma, molto semplificato, è il paradosso del consumismo, un continuo rincorrere qualcosa in più perdendo per strada pezzi di ciò che è stato prima. La scelta del second-hand (o seconda-mano che dir si voglia) accompagna la sostenibilità ambientale, così come inizia a dare la consapevolezza della nocività del fast fashion quale sfruttamento della manodopera, dei diritti inalienabili che dovrebbero andare di pari passo con un ambiente di lavoro sano e regolamentato. Anche qui, un articolo non basta a parlare di un problema che mi trovo costretta a trattare in un’altra occasione. Concordo sulla difficoltà dell’approccio al mercato della seconda mano per chi ne è del tutto vergine. Iniziare a conoscere le nostre opzioni è un buon punto di partenza, magari attraverso la ricerca troveremo il vestito del primo appuntamento, gli orecchini del nostro matrimonio o, perché no, la shopping bag che conterrà i giochi dei nostri bimbi.
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